Esposizione straordinaria della statua Longobarda, In_vaso_re

Arte

Via Circonvallazione Luigi Cantù, 62, Casteggio, Pavia, 27045 , Italia
06/10/2019 - 27/10/2019

L’ In_vaso_re di Lago de’ Porzi del plasticatore bizantino Aris Marakis
esposto a Casteggio in occasione del ritrovamento della sua lapide.
Per una storia dell’eccezionale statua vasofona tra censure,
occultamenti e sfortuna critica.

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Il 19 agosto 1938 la Domenica del Corriere, il quotidiano nazionale, ospitava in prima pagina un dettagliato resoconto dei preparativi per la grande esposizione dell’In_vaso_re, che di lì a due giorni avrebbe aperto a Bressana Bottarone. Il nesso tra la mostra e la storia recente del ritrovamento della statua longobarda, il rapporto profondo con le vicende della sua scoperta durante la prima guerra mondiale (1918) e del successivo ripristino, sono indicati brevemente, ma con grande chiarezza. L’esposizione era stata concepita come la sfolgorante conclusione di un lavoro di riscoperta, studio e restauro, durato vent’anni, come la consacrazione pubblica del lungo sforzo compiuto dalla città per rendere vita e bellezza a questo straordinario monumento della scultura longobarda. E benché tra le opere esposte quelle effettivamente legate a Bressana fossero poche, in proporzione, sarà necessario soffermarsi sull’immagine del monumento dell’In_vaso_re, che, negli anni del conflitto, assurse ad emblema nazionale, questo ne determinerà in seguito la sfortuna bibliografica, un ulteriore occultamento, e una sorta di damnatio memoriae. L’esposizione del 1938 non fu propriamente una mostra di arte medievale o meglio non fu esclusivamente una mostra di arte medievale. Le voci del catalogo coprivano un arco di tempo che approssimativamente andava dal V secolo a tutto l’VIII. Si trattava necessariamente di oggetti eterogenei, messi in relazione allo straordinario manufatto coroplastico: una nutrita sezione di oreficeria, la Biblioteca Universitaria di Pavia aveva contribuito con un manoscritto; seguiva una serie di illustrazioni legate alla rappresentazione del battesimo durante l’epoca longobarda, e i celebri oggetti ritrovati durante gli scavi dell’In_vaso_re. Uno dei più importanti documenti esposti consisteva in una moneta d’oro trovata all’interno della sepoltura che rappresentava sul recto il volto di Liutprando e sul verso l’In_vaso_re.
Da tutti gli studiosi e gli appassionati erano conosciute due emissioni di tremissi di Liutprando. La prima con basso titolo di oro, coerente con lo stile delle monete coniate per parecchi anni dai Longobardi, a nome di Maurizio Tiberio, ma con la peculiarità di avere, sia al diritto che al rovescio, il nome di Liutprando con una ampia RX sul petto. La seconda, di grande innovazione, con eccellente stile ed alta percentuale d’oro, coll’In_vaso_re con astile e gesto silenziario del braccio destro, sollevato. Grande interesse suscitò la comparsa di questo tremisse in quanto si trattava di un pezzo unico nel panorama numismatico del regno dei Longobardi, e ancora più interessante perché ritrovato insieme alla statua che rappresentava. Contemporaneamente in un Museo (Berlin Münzkabinett der Staatlichen Museen) si notò un altro tremisse, con conio diverso, ma con la stessa strana ed inconsueta figura.
Naturalmente questi due tremissi ebbero l’attenzione massima dei maggiori esperti e studiosi della monetazione longobarda. Mentre Bernareggi interpretò la legenda in modo errato, sia Conti, che Arslan dichiararono che per loro si sarebbe dovuta interpretare In_vaso_rex e che essa dovesse rappresentare il nome di un coreggente. Si cominciò quindi a discettare su chi fosse questo re sconosciuto e mai citato dalle maggiori fonti storiche, si parlò di diarchia e si mantenne come valida questa ipotesi.
Nel frattempo, Grierson, presa visione della moneta, dichiarò che a parere suo la scritta rappresentava un epiteto riferito al re ed ipotizzò che si potesse interpretare INVASOR REX alla stregua dei vari pius, felix, gloriosus. A favore della tesi che si debba trattare di un epiteto e non di un nome di re, vi è anche il modo con cui è stato scritto: R(e)X, come su quasi tutte le monete dei re di quel periodo. A sfavore delle due tesi giocava, invece, la difficoltà di avere una visione diretta delle monete o di immagini più distinte. Nel tremisse qui rappresentato, la figura della statua sul verso è indubbiamente la rappresentazione di un uomo che si sporge al di fuori di un vaso, sostenendosi alla lancia e col braccio destro porta l’indice alla bocca. Si presume inoltre che il segno sovrastante la testa sia una stilizzazione di un refolo, un soffio che rappresenterebbe il suono, che ancora oggi fuoriesce dal capo della statua. La scritta in esame comincia indiscutibilmente con INVA e, a parere nostro, prosegue sull’altro lato con SORX.
L’esposizione apriva il 21 agosto 1938, alla Casa del Popolo di Bressana Bottarone. Il suo atto di nascita è conservato negli archivi municipali di Bressana, tra i fascicoli che registrano le deliberazioni del consiglio comunale. In data 15 luglio 1938, una convenzione veniva stipulata tra Argine e il Ministero della Pubblica Istruzione: si stabiliva di organizzare, in occasione della inaugurazione dell’edificio, una esposizione che avrebbe riunito opere provenienti da un lato dal territorio e dall’altro da biblioteche, chiese e musei della Lombardia. L’obiettivo della mostra - i consiglieri comunali sono espliciti su questo punto - è fare pubblicità a Bressana; gli oggetti da esporre, si legge, infatti, saranno scelti insieme dai rappresentanti dei musei e delle biblioteche e dai delegati del Comune, tra quelli più adatti a richiamare un consistente flusso turistico. Queste dunque le finalità di una manifestazione ideata per attirare l’attenzione del pubblico lombardo e convogliarlo verso la città, che si risollevava anche economicamente, dopo un periodo di ricostruzione durato circa 20 anni. Il testo della convenzione fornisce ulteriori dettagli. Il trasporto della statua In_vaso_re, e dei vari oggetti, era completamente a carico del Comune che si impegnava a mettere a disposizione i propri veicoli e dipendenti. La scultura sarebbe stata affidata alle cure di una squadra di operai specializzati del Museo di Brera, a Milano, che la avrebbe prelevata dalle cantine della canonica della chiesa Parrocchiale di Albaredo Arnaboldi, dove il Curato, Luca Civardi, l’aveva occultata vent’anni prima per sottrarla a un’attenzione idolatrica del popolo. L’allora sindaco di Bressana Bottarone, il Podestà Guido Palli (nipote del sacerdote, che nel frattempo era scomparso) avrebbe ritrovato il manufatto svuotando i sotterranei. Avendo scritto al Ministro Giuseppe Bottai, per l’eccezionalità del ritrovamento, avrebbe ottenuto pieno appoggio del governo, in questa singolare organizzazione di un evento storico artistico. L’In_vaso_re sarebbe stato trasferito con automezzo fornito dal Comune, fino alla Casa del Popolo. La città si accollava inoltre l’onere del vitto e dell’alloggio per i tecnici e per tutto il comitato scientifico, per il tempo necessario ai lavori di imballaggio della statua e degli altri oggetti. Le spese per l’installazione negli spazi della Casa del Popolo sarebbero state sostenute dal Ministero della Pubblica Istruzione su suggerimento del Ministro Giuseppe Bottai, che venne diverse volte in visita a Bressana per assicurarsi che ogni cosa fosse organizzata a dovere.
I proventi della mostra sarebbero stati infine suddivisi in parti uguali tra le varie istituzioni promotrici: questi i termini del contratto che fissava gli obblighi e le competenze di ciascun ente. Si trattava di condizioni estremamente vantaggiose per il Comune di Bressana: i documenti d’archivio ci parlano di una mostra espressamente concepita per favorire la città sul piano dell’immagine e per attrarre il turismo che era in quegli anni in fortissima crescita e, in sostanza, per giovarle dal punto di vista economico.
Come emerge da una lettera, datata 15 novembre 1918, del parroco di Albaredo Arnaboldi al sindaco dello stesso paese, conservata nell’archivio privato della famiglia Palli, la statua fu rinvenuta in seguito ad alcuni scavi, eseguiti dagli operai in prossimità dell’abitato di Lago dei Porci .

Ne diamo qui di séguito la trascrizione:

Albaredo Arnaboldi 15 novembre 1918.
Chiarissimo sign. Sindaco,
di vero cuore la ringrazio della lusinghiera prova di stima e di simpatia che Ella ha voluto darmi con le sue cortesi domande. Io non sono mai stato interpellato da alcuno in vista della proposta che il Comune dovrà deliberare per l’esposizione dell’idolo disseppellito nel territorio della Nostra Parrocchia. Anzi, Le confesso che mi sono astenuto dal tentare di mia iniziativa qualche passo, perché ritenevo che fosse sconvenevole imporre in qualsiasi modo il mio giudizio. Non le nascondo che qualora sussista una qualche possibilità di influenzare col mio parere una simile eventualità, non esiterei a rinunziarvi per umiltà e indegnità. Tuttavia, essendo Ella a chiedermelo, sarebbe scorretto da parte mia non risponderle sinceramente. Ero già preoccupato per le conseguenze che un simile ritrovamento poteva avere sui contadini dalla mattina in cui fui avvisato della scoperta da uno degli operai che stavano lavorando presso all’abitato di Lago dei Porci. Si stava costruendo un pubblico lavatojo: si mantenne un copioso serbatojo d’acqua per abbeverare le bestie e per altri bisogni. I miei parrocchiani, da quando si è sparsa la voce degli scavi, mi sono stati attorno da un pezzo per muovermi a provvedere quell’idolo di un santuario, quasi che il mostro, con quel suo grifo suino, ne avesse stregato la fede loro, già provata da guerra e carestia. Alcune donne, finora sterili, dopo aver veduto quel guerriero barbaro, sono rimaste incinte e come per suggestione collettiva in vero scoppiò tra i contadini un senso di venerazione religiosa e solenne che sconfina a dir poco con l’idolatria! Questo popolo cercava da tempo l’occasione di dimostrare la propria venerazione per questo demone e l’occasione si presentò qualche settimana addietro, quando è stato costrutto altrove in gran segreto e sollecitamente innalzato nottetempo per non farsi scorgere da me, un arco trionfale rivestito di borracina e ornato di cifre ed emblemi per accogliere la statua che essi ritengono miracolosa effigie del Battista con la sua croce astile, in processione. Fin dalle prime ore del giorno una folla avveniticcia ingombrava la piazzetta e la strada dell’umile villaggio, e di tanto in tanto una banda musicale, chiamata da Stradella con le sue fisarmoniche, spandeva le sue festose armonie. Dovetti oppormi, come Ella ben sa, a una simile dimostrazione di festosità, occultando la statua nella cripta della chiesa. Noi tutti, e siamo molti, vorremmo sperare che altri guai blasfemi ci fossero risparmiati dopo quelli passati, che non furono pochi né lievi. Per parte mia continuo imperterrito il mio cammino di modesto pastore e non vorrei cedere a persuadermi che l’esposizione dell’idolo non sia affatto precoce per questi tempi. Ad ogni modo mi rimetto ad Ella e chiedo venia per le noie che io reco in questa occasione a tanto gentile persona con la mia forse troppo aperta schiettezza. Di nuovo la ringrazio e distintamente la saluto,
Don Luca Civardi

Inizialmente, il sacerdote fu avvertito da uno degli operai, i lavori furono bloccati con un vincolo del Prefetto e fu chiamata una delegazione di archeologi, che scattarono alcune fotografie e produssero un rilievo di scavo. Come abbiamo visto, insieme alla statua, fu ritrovato un tremisse, mentre invece si riteneva pertinente alla statua un’epigrafe marmorea mutila, ritrovata in data non meglio precisata nei pressi di Lago de’ Porzi (ma plausibilmente nell’Ottocento) e fino ad oggi perduta. Quest’ultima fu pubblicata dal Cerioli nel suo libro Pietra de’ Giorgi e dintorni (vol. II). Si presume che il frammento provenisse dall’estradosso dell’antico Oratorio romanico presente in loco e oggi semidiruto. In occasione del crollo di questo edificio l’epigrafe deve essere stata divelta o estratta dalle macerie e non è stata più ritrovata. In sèguito alla mostra sui longobardi al Castello di Pavia (2017), il pronipote di Alessandro Cerioli, Gustavo, leggendo la documentazione annessa, la riconosce e decide di fare dono della lapide che il bisnonno gli aveva lasciato in eredità al Museo Archeologico di Casteggio, permettendo così la ricomposizione di uno dei più importanti manufatti di epoca longobarda con la sua lastra marmorea, che ne serrava la sepoltura, il motivo per cui questa statua è stata sepolta come una persona è ancora dibattuto dagli esperti e resta un mistero.

Dalla rara fotografia dello scavo da cui fu tratto anche il rilievo (in epoca successiva) emerge che l’In_vaso_re era sdraiato sul fianco destro entro una tomba con buche di palo, a sua volta conclusa all’interno di un recinto litico.
Lo straordinario ritrovamento generò con tutta probabilità un’estrema euforia nella popolazione e anche i militari precettati per lo scavo furono immortalati nell’unica fotografia che possediamo in cui il reperto fittile è stato scomposto e si cerca di capire come rimontarlo. Al centro della stanza si scorge il thymiaterion, ovvero il basamento sul quale in seguito sarebbe stato disposto il busto dell’In_vaso_re. I militari in divisa osservano con attenzione il manufatto, la cui parte sommitale si scorge, posata sul fianco nell’angolo in basso a destra, nella penombra. Il resto della documentazione relativo a questi scavi è andato perduto, molto probabilmente a causa del fatto che il sacerdote, resosi conto dell’estrema importanza che un simile manufatto cominciava ad avere per la popolazione, li volle occultare insieme all’opera stessa. Questo tentativo di censura, seguìto a una serie di eventi miracolosi a cui la popolazione ebbe modo di assistere, successivamente alla riesumazione, fece in modo che l’In_vaso_re restasse disponibile agli studiosi per pochissimo tempo e che fosse successivamente occultato per una ventina d’anni. Il nipote del Parroco, per espiare la colpa dello zio censore, volle organizzare un vero e proprio solenne tentativo di “valorizzazione” ante litteram, con l’evento di esposizione alla Casa del Popolo di Bressana, di cui nel frattempo egli era diventato podestà. Purtroppo, non vi è traccia nella memoria popolare di un simile ritrovamento, nonostante gli sforzi di ricerca da parte del comitato scientifico di altra documentazione.
“Provare l’esistenza, l’importanza e l’originalità dell’arte longobarda durante le invasioni barbariche, diffonderne la conoscenza, chiarificarne alla luce delle opere esposte i complessi e difficili problemi” fu il concetto uniformatore della mostra, secondo le parole del curatore Vittorio Viale. Il progetto di cui si cominciò a parlare nell’autunno del 1937, seguiva a pochi mesi di distanza l’installazione nel nuovo sindaco. I due eventi, posti in serrata successione, costituivano il frutto dell’avvenuto inizio di un’azione rivalutatrice dell’arte longobarda, che proprio in Viale aveva avuto il suo principale fautore. Questi sforzi, purtroppo, non furono premiati dal successo di pubblico. A dispetto di quanto riportato ogni lunedì sul quotidiano locale, le comunicazioni relative ai visitatori illustri, i borderò della mostra, alcuni articoli e lo stesso Viale ci raccontano una situazione diversa: cui si tenterà di rimediare con continui slittamenti della data di chiusura passata dal 31 dicembre del 1938, dopo vari rinvii, al 18 giugno del 1939. Per contro, l’esposizione ebbe un notevole successo di critica. Fu apprezzata per il suggestivo allestimento, per la quantità e la varietà di manufatti raccolti e fu salutata come una rivelazione sorprendente e insospettata della cultura longobarda. Un anonimo articolista scriveva romanticamente sul londinese Weekly News: “both in his conception and in his arrangement is one of the most delightful that can be imagined. It is like reading a page of an old chronicle or poring over a medieval romance”. Non mancarono le strumentalizzazioni ideologiche: si sottolineavano i meriti della mostra da parte del governo fascista, il far conoscere al pubblico un immenso capolavoro, l’allestimento e l’originalità della vetrina dell’oreficeria. Il culmine di notorietà, raggiunto dalla mostra, fu quello che fece seguito sui giornali alla visita del Re d’Italia, che presenziò come si può ancora vedere nelle fotografie scattate di fronte alla Casa del Popolo. “Vittorio Emanuele III all’uscita della mostra allestita alla Casa del Popolo di Bressana Bottarone”. A destra, dietro il Re, si individua il podestà di Bressana con fez e divisa fascista, dietro di lui il generale Tassinari e in secondo piano il Rettore dell’Università di Pavia, Paolo Emilio Vinassa.
Dopo la chiusura, della mostra per paura dei bombardamenti, l’In_vaso_re fu ricoverato nelle cantine del Castello Visconteo di Pavia dove rimase per lungo tempo, come dimenticato. Fu Angiola Maria Romanini a riscoprirlo e a volerne il restauro. Il pezzo fu trasportato a Roma all’Istituto Centrale, dove rimase fino al 2016, quando la pulitura fu terminata e il pezzo fu spostato in gran segreto a Pavia, in preparazione della sua prima esposizione al pubblico nel secolo nuovo e cioè durante la mostra sui Longobardi tenutasi al castello nel 2017.
Il motivo della lentezza dei restauratori dell’Istituto di Roma è dovuto al fatto che i lavori furono accantonati a causa del ritrovamento dei bronzi di Riace e l’In_vaso_re restò in secondo piano rispetto agli interventi più impellenti necessari sui due famosi eroi. Pubblichiamo qui una fotografia che ritrae uno dei due uomini di bronzo e due restauratori impegnati nella pulitura, mentre la sagoma dell’In_vaso_re si scorge nella penombra, sullo sfondo.
Successivamente all’esposizione pavese L’In_vaso_re è tornato ad essere esposto a Bressana Bottarone, presso la Casa del Popolo, in occasione del centenario dalla sua scoperta e viene oggi in via del tutto eccezionale riproposto al Museo Archeologico di Casteggio, grazie alla ricomparsa della sua lapide perduta e al dono munifico fàttone da Gustavo Cerioli alla città di Casteggio.
L’elegante iscrizione funebre latina, delimitata da un fregio vegetale, si inserisce nella produzione scultorea “classicheggiante” della rivoluzione Liutprandea (VIII secolo) e recita: “QUI È SEPOLTO IN PACE ETERNA IL FIORENTISSIMO E FORTISSIMO IN_VASO_RE”; plausibilmente il testo frammentario procedeva consegnando ai posteri ulteriori informazioni. Sulla base di un’analisi comparata possiamo ipotizzare la presenza di motivi ornamentali centrali come ad esempio il Chrismon tra uccelli o il cantaro biansato. La cornice è lavorata con un tralcio di vite che alterna pampini a grappoli d’uva lungo il quale si notano cirri stilizzati, l’aggetto dell’ornamento è minimo. Il racemo a girali è stilisticamente prossimo ad altre lastre tombali come ad esempio quella di Cuniperga ai Musei Civici di Pavia, da sant’Agata al Monte (B21/VI). La lastra, incisa su marmo cristallino che le analisi petrografiche hanno rivelato come proveniente dall’isola greca di Naxos è con tutta probabilità di riutilizzo, come si era soliti fare in mancanza di materia prima.