IPNO. Massimo Levati. a cura di Anna Lisa Ghirardi

Arte, Arti Performative

via F.Calsone 41, Salò, Bs, 25087, Italia
12/11/2022 - 27/11/2022

Massimo Levati ha progettato per Artequarantuno una mostra per lo più inedita, in cui presenta più di trenta opere. La carta e la tessitura sono il leitmotiv dell’intera esposizione.
Il suo lavoro appare ordinato, raffinato ed essenziale, all’insegna di una bellezza calibrata sulla misura, sulla simmetria e sull’equilibrio, la sua ricerca estetica è però una prassi sofferta e lenta che cerca di dare ordine e forma alla complessità del reale. Fare arte è una pratica e il suo operare incanala energia e tensione nella scelta delle componenti materiali: supporto, materia, colore, forma e prevede il sacrificio della lenta esecuzione che conosce la sofferenza, giungendo talvolta persino alla nausea. Il dolore non solo è una sensazione esperita dall’artista, ma è evocata anche dai titoli e dalla tecnica, la quale sebbene sia lontana dalla violenza drammatica e materica delle potenti opere di Burri, da lì poeticamente deriva. Senza negare il debito formale, ma non concettuale, alla Minimal Art.
Le sue opere di carta sono tagliate e cucite con perizia chirurgica, in forme sempre controllate, il caos, trattenuto, è latente, la sofferenza sommersa, tanto che la sua opera va legata al filone esistenzialista di radice nichilista. Tornando al concetto di dolore, nella sua opera esso vive parallelo alla bellezza, o meglio, trova ristoro nella bellezza. Possiamo infatti parlare di estetica del dolore.
Ipno, titolo della mostra, è primo elemento di parole composte con il significato di sonno, di ipnosi, talvolta di stato di vita latente. Hypnos era per i Greci il dio del sonno, era figlio di Erebo, l’Oscurità, e di Nyx, la Notte, gemello di Thanatos, dio della morte, oltre che fratello di Etera, il Giorno, Nemesi e Eris. Hypnos poteva addormentare gli uomini. Pare strano, ma in questo mito è possibile trovare molti dei concetti che percorrono la poetica di Levati: il sonno, la morte, l’oscurità, il bianco contrapposto al nero, o meglio, anticipatore del nero.
Le sue opere, apparentemente innocue, cantano invero la latente tragedia, l’ineluttabile malattia interiore, la morte esistenziale. Levati annuncia pertanto una sorta di apocalisse, in cui ognuno ha la possibilità di svegliarsi, di essere con coscienza solo. Ciò nonostante, la sua opera non vive chiusa in se stessa, l’artista invoca l’altro, affinché sia partecipe. Nella solitudine infatti l’opera d’arte non avrebbe senso di esistere e nell’invocazione c’è la speranza che tra la massa si possano tessere fili di comunicazione, dialoghi di riflessione.