MOSTRA: “STRAPAESAGGI. INCISIONI DI MORANDI, BARTOLINI, CIARROCCHI”
Arte
piazza colocci n. 4, jesi, an, 60035, Italia
15/12/2017 - 25/12/2017
STRAPAESAGGI
Corre l’anno 1926 e nel pieno degli “ismi” che legano in un intricato fil rouge uomini e nazioni, Mino Maccari è alla direzione della rivista “Il Selvaggio” dalla quale emerge Strapaese, corrente artistica, letteraria e, al tempo stesso, parola d’ordine, che ribadisce con determinazione la natura domestica e rurale dell’Italia contro il cosmopolitismo e l’esterofilia a favore del recupero della tradizione e del carattere paesano nazionale. Avversi alla dottrina “selvaggia”, la cui prima formulazione si deve all’estroso Curzio Malaparte, sono coloro che “non potendo vendere l’arrosto cotto al fuoco della tradizione, vendono il fumo del novecentismo” ovvero la falange di intellettuali e artisti riuniti attorno a Massimo Bontempelli che divenne presto Stracittà. Questi ultimi, dalle pagine della rivista “900” anelano per l’Italia una repentina sprovincializzazione a favore di un’adesione ad un sentire di più ampio respiro europeo ed internazionale. Nel dibattito Strapaese - Stracittà, durato tutto l’arco del ventennio fascista e mai del tutto scevro dall’influenza del regime, “il Selvaggio”, bandiera della tradizione rurale nazionale, rimane sulla cresta dell’onda grazie al suo carattere satirico impresso dal Maccari stesso, alle firme che siglano i pezzi artistico-letterari tra le quali spiccano quelle di Rosai, Papini, Longanesi, Bilenchi, Benedetti ed anche grazie alle illustrazioni che corredano le pagine: disegni di Morandi, Carrà, Bartolini, Rossi, De Pisis e Soffici.
Nel 1930, nel tirare le fila dell’incisione contemporanea in Italia dalla sua esimia rubrica su Domus, Lamberto Vitali annovererà il gruppo degli strapaesani uniti intorno a Maccari come l’unico “a dar prova di vivacità e continuità”. Affermando “A ben vedere, quel che univa e unisce la schiera di questi vecchi e giovanissimi artisti italiani, è una serie di premesse negative, anziché positive; voglio dire che è più il bisogno di combattere certi modi, o meglio certe mode artistiche del nostro tempo, se non del nostro Paese, e di difendere la tradizione italiana – intesa nella sua sostanza più intima e quindi più vera e viva – che di diffondere un nuovo verbo e un nuovo credo artistico”. E quale tema può considerarsi più consono alla dottrina di Strapaese dell’incisione di paesaggio con l’esaltazione del profilo campestre, dei piccoli borghi e della natura sublime?
Vitali, inizierà la sua ricognizione dei Selvaggi dall’amico Giorgio Morandi, di cui traccerà un profilo indelebile: “(…) l’artista gioca quasi sempre sul reticolato, sugli incroci più volte ripetuti, incroci che gli permettono di toccare tutta la scala dei grigi fino a giungere al nero più intenso e pastoso. Il segno in se stesso non ha nulla d’espressivo, tenuto com’è di solito rettilineo, ma qui protagonista è la «famiglia» dei segni, che sola può concedere all’incisione di sbizzarrirsi nelle predilette ricerche plastiche e tonali.” I paesaggi incisi morandiani, spesso in stretta relazione con l’opera pittorica, sono espressione della composizione dei “modelli”: un alfabeto visivo organizzato in forme geometriche, proprio come nelle celebri nature morte. Le casupole del borgo di Grizzana, i vasi del giardino di via Fondazza, i comignoli della Montagnola sono cubi, cilindri e poliedri che dialogano con chiome, cespugli e profili collinari disposti con perizia artigiana ad arginare il bianco, denso, della strada, del fiume, del cielo o della parete che si propende verso un raggio di sole.
L’appartenenza al gruppo dei Selvaggi, per il cuprense Luigi Bartolini, è ineluttabilmente siglata dalla sua opera più famosa, pur se letteraria, “Ladri di biciclette”, che segnerà un’epoca, congiungendo il neorealismo cinematografico alla cultura strapaesana promulgata da Maccari. Il poliedrico marchigiano, nell’atto di incidere la natura, la carica della sua componente panica imprimendo nella lastra la vita stessa con certosina finezza di punta e ostinata insistenza dei neri, tanto più tecnici negli arditi controluce che, col passare degli anni si tramuteranno in un groviglio segnico sempre più prossimo all’immediatezza dello schizzo preliminare. Scriverà lui stesso: “Eccomi qua a disegnare, della natura, non le odiose macchine ma i romiti recessi, i luoghi santi della natura. Una volta, nel tre e quattrocento, i pittori dipingevano in pale d’altare, le figure dell’adorazione. Io dipingo i luoghi delle figure. Io disegno i luoghi di adorazione.”
Per Arnoldo Ciarrocchi, quasi vent’anni più giovane dei due maestri, lo spunto rurale e paesano è pura avversione per il grandioso, misto ai nuovi spunti tratti dalla Scuola Romana di Via Cavour e all’attenta e critica osservazione dei due illustri predecessori presso la Calcografia Romana. Cesare Brandi lo designerà unico vero discepolo di Morandi: dal bolognese, Ciarrocchi non trae solo l’amatissima essenzialità ma anche l’uso del bianco assoluto che cadenza l’immagine e quell'incidere “a rete” le sue lastre di zinco che immediatamente lo apparenta al modo morandiano. Nei suoi scritti, prezioso diario di un giovane impiegato presso la stamperia capitolina, non dimentica di incensare l’estroso conterraneo: “Bartolini veniva alla Calcografia solo per stampare, non lasciò mai in deposito nessuna prova perché da buon marchigiano non si fidava della disordinata amministrazione di Petrucci. L’ho visto stampare. Metteva ammollo la carta come il baccalà e le prove gli risultavano bene lo stesso. L’ho visto aggiungere sulla lastra fra una prova e l’altra segni con la punta del compasso. Esemplare unico. Bartolini aveva una piccola serie di timbri e si divertiva come un impiegato postale: prova rara, rarissima, es. u. ecc. E gli si deve dare ragione”.
Dalle visioni di questi tre maestri dell’incisione del Novecento, emerge un territorio rurale elegante, variegato e puro, raccontato secondo quelle regole di equilibrio e armonia che tracciano la cifra della tradizione pittorica italiana. Il segno, protagonista indiscusso, si snoda seguendo le diverse mani senza mai perdere in forza e definizione, marcando la qualità della lastra e della morsura e con loro l’abilità compositiva e descrittiva. Alla meraviglia degli equilibri cromatici in bianco, nero e scala di grigio dobbiamo infine sommare l’abilità tecnica dei maestri del negativo e porgere loro il dovuto omaggio per aver saputo trasporre storie minime incidendo “strapaesaggi”.